Sidereus nuncius (1610)

Introduzione

Uscito dalla tipografia nel marzo 1610 in una tiratura di 550 esem­plari, il Sidereus nuncius rendeva conto delle scoperte astronomiche cui Galileo era giunto grazie al cannocchiale, tra gli ultimi mesi del 1609 e i primi del 1610. Con una scrittura limpida e uno stile schietto ed essenziale l'opera diffondeva sic et simpliciter i risultati acquisiti nel corso delle osservazioni telescopiche senza alcun fronzolo erudito.

Le straordinarie novità di cui il libretto dava notizia in latino, la lingua universale dei dotti del tempo, riguardavano il carattere scabro ed irregolare della superficie lunare costellata di rilievi e avvallamenti, l'immenso numero di stelle (invisibili ad occhio nudo) che affollano le profondità siderali formando le nebulose e la Via Lattea, la rotazione attorno a Giove di quattro satelliti secondo orbite regolari.

Di quest'ultima scoperta Galileo approfittò per stringere ulteriormente i rapporti con la Corte medicea e favorire così il proprio progetto di un ritorno in Toscana. Poter rientrare in patria come stipendiato dal suo "naturale" so­vrano gli avrebbe permesso di dedicarsi allo studio senza esser distratto dall'insegnamento. Un mese prima della pubblicazione dell'opera scriveva perciò a Belisario Vinta, Segretario di Stato del Granducato, partecipandogli il pro­prio desiderio di dedicare al Granduca Cosimo II i satelliti di Giove appena osservati. Chiedeva tuttavia consiglio, di­chiarandosi incerto nella scelta del nome: chiamarli «Co­smici dal nome suo, o pure, già che sono a punto quattro in numero, dedicarli alla fraterna con nome di Medicea sydera». Il Vinta sciolse a stretto giro di posta i dubbi di Galileo, rilevando che l'ultima «inscrizzione» (Medicea sydera) appariva più gradita ed opportuna, in quanto direttamente ed inequivocabilmente riferibile alla dinastia dei Medici. Nacquero così le Stelle Medicee.

La Luna

Dopo aver illustrato il contesto della costruzione del telescopio [III, 60] ed aver spiegato un metodo sicuro per misurarne la capacità di ingrandi­mento [III, 61], Galileo dava conto di quanto aveva visto sulla superficie lunare [III, 62].

Oltre alle evidenze osservative, Galileodimostrava la presenza di rilievi sul suolo lunare anche col fatto che, quando la Luna si trovava nel primo o nel secondo quarto, il terminatore (la linea che separa l'area rischiarata da quella buia) non appariva perfettamente ovale, e quindi la sua superficie non poteva così essere piana e regolare [III, 63]. Dalle innumerevoli «punte lucenti» (lucidae cuspides) che brillavano nella zona tenebrosa, Galileo deduceva l'elevarsi di alte montagne sul territorio lunare: proprio come sulla Terra il Sole al suo sorgere doveva toccare prima le cime per poi scendere gradualmente ad illuminare le valli sottostanti [III, 63]. Le catene montuose anche imponenti disseminate sul suolo lunare apparivano più oscure nella parte opposta al Sole e più luminose là dove guardano il Sole, delimitando poi grandi «cavità», cioè profondi crateri [III, 65].

Galileo spiegava anche il fenomeno della «luce secondaria» della Luna [III, 72] - che affermava di aver osservato e spiegato già da molti anni - riconducendolo alla riflessione della luce solare da parte della Terra [III, 74].

Le stelle fisse, le nebulose e la Via Lattea

Passando dai pianeti alle stelle fisse, la differenza una volta ingranditi al telescopio era notevole: mentre i pianeti apparivano circolari e definiti nei contorni, le stelle si presentavano «come fulgori vibranti tutt'attorno i loro raggi e molto scintillanti». Il loro numero, poi, si svelava infinitamente superiore rispetto a un'osservazione ad occhio nudo, e diversi divenivano anche i parametri delle loro grandezze, come illustrano alcune figure di supporto con le novità scoperte in Orione e nelle Pleiadi [III, 75-78].

Le osservazioni, «con la certezza della sensata esperienza» spazzavano via anche tutte le «sterili dispute» dei filosofi intorno alla materia della Via Lattea, la quale altro non era che «un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi», e se ne osservavano a migliaia, ovunque si mirasse con l'occhiale. Anche quella materia lattiginosa che pareva formare le nebulose era costituita da «raggruppamenti di piccole stelle disseminate in modo mirabile». Troppo lontane per esser viste ad occhio nudo, producevano con l'intrecciarsi dei loro raggi quel «candore» che fino a quel momento era stato creduto «una parte più densa del cielo, atta a riflettere i raggi delle stelle e del Sole» [III, 78-79].

I satelliti di Giove

A questo punto non restava che affrontare «l'argomento più importante»: «rivelare [...] e divulgare quattro pianeti, non mai dalle origini del mondo fino ai nostri tempi veduti» [III, 79]. Galileo rendeva così di dominio pubblico i risultati di quasi due mesi (dal 7 gennaio al 2 marzo 1610) di accurate osservazioni, riportando dettagliatamente le posizioni quotidiane dei satelliti di Giove [III, 80-94].

Dal fatto che questi astri «ora seguono, ora precedono Giove con intervalli consimili», accompagnandolo anche nel moto retrogrado, si poteva arguire al di là di ogni dubbio che essi fossero appunto i satelliti di quel pianeta. Galileo confutava così una delle pretese prove addotte in contrario dai detrattori del sistema copernicano, che la Terra cioè, avendo un satellite orbitante attorno a sé, non potesse a sua volta ruotare attorno al Sole. Giove, avendone ben quattro, poteva tranquillamente compiere le proprie rivoluzioni  [III, 95]. Ma attorno a che cosa?

La falsità del sistema aristotelico-tolemaico e l’opzione copernicana

Le scoperte celesti del Sidereus nuncius assumevano dunque, almeno agli occhi del loro autore, un marcato significato filo-copernicano, implicazione già chiaramente espressa nella dedicatoria dell'opera a Cosimo II [III, 56]. Certo era comunque che alcuni capisaldi della tradizione aristotelico-tolemaica erano stati irrimediabilmente confutati: il sensismo aristotelico aveva portato a conclusioni false.

L'aspetto scabro ed irregolare della superficie della Luna e la sua similitudine con quello della Terra negavano le pretese differenze fra mondo celeste e terrestre, incorruttibile e perfetto il primo, alterabile e approssimativo il secondo. Stando così le cose, se la Luna orbitava intorno a un centro, perché la Terra, palesemente affine, non avrebbe potuto fare altrettanto?

Le stelle osservate al telescopio risultavano una quantità infinitamente maggiore rispetto a quelle visibili a occhio nudo collocate da Aristotele nel cielo delle stelle fisse, e ingrandendo con la lente i pianeti interni Venere e Mercurio potevano osservarsi le loro fasi, a dimostrazione della loro rotazione attorno al Sole e non attorno alla Terra come previsto nel sistema geocentrico di Aristotele e Tolomeo.

Perché poi la Terra non avrebbe potuto ruotare attorno al Sole trascinando con sé il proprio satellite, se Giove ruotava trascinando con sé le sue quattro lune? Cadeva con queste osservazioni una delle prove più gettonate dagli anticopernicani che vedevano vacillare teorie millenarie, e proprio sul loro stesso terreno dell'esperienza dei sensi, leggermente potenziati dall'uso di uno strumento, grazie cioè a prove fisiche e rilievi empirici, gli unici cui erroneamente attribuivano valore conoscitivo.

Galileo non mancò di evidenziare questi aspetti, rendendo subito il Sidereus nuncius oggetto di valutazioni non solo astronomiche in senso stretto, ma cosmologiche in senso lato. Le scoperte telescopiche rinvigoriro­no perciò le convinzioni copernicane di Galileo, persuadendolo della possibilità di basare anche su fondamenti osservativi la verità dell'eliocentrismo.