Il Saggiatore (1623)

Storia editoriale

Nato in risposta alla Libra astronomica ac philosophica (1619) del gesuita Orazio Grassi, celato sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi, Il saggiatore è l'opera più significativa all'interno della lunga controversia sulle comete, corsa fra Galileo e la Compagnia dopo l'osservazione di tre di esse, apparse fra il 1618 e il 1619. Si trattava di fatto del conflitto fra due diversi sistemi del mondo: non più Copernico contro Tolomeo, palesemente smascherato nelle sue falsità dalle osservazioni astronomiche pubblicate da Galileo nel Sidereus nuncius, ma Copernico contro l'elio-geocentrismo di Tycho Brahe, sulle cui posizioni gli astronomi gesuiti avevano riparato. Polemica serrata, quindi, ma ad armi impari. La verità di Tycho poteva essere difesa e sostenuta, quella di Copernico no, dopo il processo del 1616 e la sospensione del De revolutionibus. Solo un'ipotesi matematica, se proprio si volevano salvare le apparenze dei fenomeni, con la garanzia, però, di mantenere la Terra al centro dell'universo, inamovibile. Avevano preceduto Il saggiatore, entrambi nel 1619, la De tribus cometis anni mdcxviii disputatio astronomica, sempre del padre Grassi, e il Discorso delle comete, scritto in replica da Galileo con la collaborazione dell'allievo Mario Guiducci, ma firmato unicamente da quest'ultimo. Lo seguirà nel 1626, a suggello della polemica, nella quale toccò al Grassi l'ultima parola, la Ratio ponderum librae et simbellae, cui Galileo non si degnerà di reagire.

Se il botta e risposta iniziale era stato assai concitato e tutto si era svolto nell'arco di mesi, Il saggiatore si fece attendere non poco. Frenato da continui problemi di salute, Galileo non riuscì a terminare l'opera se non alla fine del 1621. Scritta in forma di epistola indirizzata al linceo Virginio Cesarini, fu inviata in visione al destinatario e a tutti gli altri membri dell'Accademia nell'ottobre del 1622. La lettura fu attenta e richiese mesi. Lo stesso Cesarini scriveva a Galileo all'inizio del 1623:

poichè V.S. rimette al nostro arbitrio questa determinazzione, le dico che sicuramente vogliamo publicar l'opera, e che vogliamo ciò fare in Roma, non ostante la potenza degli aversarii, contro ' quali ci armaremo dello scudo della verità, ed anco de' favori de' padroni. Non vi ha dubbio ch'avremo contradizzioni, ma ho speranza sicura che le supereremo.

Tutto avvenne nel più totale riserbo, per timore che i Gesuiti potressero intervenire a impedire la pubblicazione. Nel febbraio giunse l'imprimatur. Lo aveva concesso il domenicano genovese Niccolò Riccardi, che tanta parte avrà in seguito nella vicenda del Dialogo sopra i due massimi sistemi. Il suo apprezzamento era incondizionato: la «sottile e soda speculazione dell'autore» permetteva di pesare «l'oro della verità», «non più con la stadera e alla grossa, ma con saggiuoli così delicati». L'autorità ecclesiastica assecondava così il gioco di Galileo che, scegliendo come titolo Il saggiatore, cioè la precisissima bilancetta degli orefici, intendeva rimarcare le approssimazioni della libra, che altro non era in latino se non la stadera da mercato.

Per gli impegni, ordinari e straordinari, degli accademici la stampa iniziò con un certo ritardo nel maggio. A Tommaso Stigliani fu affidato il compito di rivedere le bozze: il tempo sottratto alla correzione dei refusi, rimasti nel testo in quantità intollerabile, fu impiegato dal poeta per aggiungere un passo di suo pugno, costringendo Galileo a depennarlo, già uscito il volume, allegando un errata corrige al maggior numero possibile di esemplari.

Il tutto terminò in ottobre. Riferiva il linceo Francesco Stelluti a Galileo di come il padre Grassi si fosse precipitato di corsa dal libraio: «dimandò di detto libro, e nel leggere il frontespicio si cambiò di colore». In effetti Il saggiatore, disamina astronomica e grande lezione di metodo contro le cancrene aristoteliche, fu anche, in buona parte grazie alla rete lincea, un'ambiziosa operazione diplomatica. Il frontespizio, oltre alle allegorie della matematica e della filosofia naturale, ormai coppia indissolubile dell'orizzonte galileiano, e all'insegna accademica della lince, mostrava anche l'arme dei Barberini. L'Accademia lo dedicava infatti al neoeletto papa Urbano VIII, antico ammiratore di Galileo e suo lirico apologeta, sul quale si contava per svincolare Copernico dalle maglie della censura. Eppure la strategia avrebbe ben presto rivelato la sua miopia: né il sincero apprezzamento del Saggiatore, che con gran soddisfazione il pontefice si faceva leggere durante i pasti, né l'affiliazione all'Accademia del cardinal nipote Francesco Barberini, che era parte del pacchetto celebrativo del casato, sarebbero riusciti ad affrancare la Terra dalla clandestinità del suo moto.

La disputa e le diverse concezioni del mondo

Col Discorso delle comete (1619) [VI, 37-108], nel confutare la Disputatio astronomica (1619) [VI, 21-35] di Orazio Grassi, Galileo e Guiducci non si distaccavano troppo da Aristotele (convinto che le comete fossero esalazioni innalzatesi dal suolo terrestre) e spiegavano il fenomeno in termini puramente "ottici" come riflessione di luce solare. A differenza degli aristotelici situavano però le apparizioni cometarie ben oltre il limite del concavo lunare. Attribuendo alla cometa un moto rettilineo uniforme lungo una  traiettoria perpendicolare alla superficie terrestre, davano conto con elegante efficacia delle sue variazioni di velocità e grandezza. Anche se implicitamente per ovvie ragioni di prudenza legate alla censura anticopernicana del 1616, attribuivano di fatto al mutamento di posizione dell'osservatore, ovverosia al moto terrestre, l'apparente deviazione verso settentrione del percorso cometario.

La disputa sulle comete del 1618 aveva dunque notevoli implicazioni di carattere cosmologico. Il credito crescente riscosso non solo dalle teorie  cometarie, ma dall'intero sistema di Tycho Brahe, fatto proprio dal Grassi e dall'intera Compagnia di Gesù, preoccupava Galileo fino a spingerlo a intervenire nel dibattito: i fenomeni legati alle comete erano infatti considerati fra le prove più forti a discapito delle tesi copernicane.

La 'Libra astronomica ac philosophica' di Orazio Grassi

La Libra [VI, 110-180], risposta gesuita al Discorso delle comete, è indirizzata direttamente contro Galileo e abbonda di spunti provocatori e aspramente polemici, tanto da equipararlo a due autori fortemente "sospetti" sotto il profilo dell'ortodossia dottrinaria, come Girolamo Cardano e Bernardino Telesio. Lasciandosi andare a insinuazioni pesanti sulla presunta (anche se non dichiarata apertamente) adesione di Galileo alla bandita cosmologia copernicana, il Grassi dimostrava di aver ben compreso le intenzioni di Galileo e, pur negando flebilmente di aver espresso qualcosa di più che una semplice approvazione delle tesi cometarie di Tycho, ne qualificava nondimeno l'impianto cosmologico come il solo ammissibile per un cattolico. Dal punto di vista scientifico la replica del Grassi attesta tuttavia la notevole preparazione astronomica ed ottica del matematico gesuita, le cui obiezioni agli argomenti di Galileo non mancano talora di efficacia.

La replica di Galileo: 'Il saggiatore'

Il saggiatore si apre con una lunga premessa nella quale Galileo chiarisce, in primo luogo, la scelta del titolo [VI, 220], proponendone ironicamente uno nuovo per l'opera del Sarsi: L'astronomico e filosofico scorpione avrebbe reso meglio l'idea del veleno che ne sgorgava [VI, 220]. Di seguito Galileo enumera le molteplici occasioni nelle quali ha dovuto prendere la parola per difendersi da quanti avevano tentato di appropriarsi delle sue scoperte o avevano cercato di entrare in polemica con lui [VI, 213]. L'opera si articola, poi,  in 53 paragrafi che ripercorrono tutto il testo della Libra, al modo di un commentario critico.

Il paragrafo che riguarda la difesa dall'accusa di copernicanesimo nasce dal rilievo polemico del Grassi riguardo all'ipotesi di una traiettoria rettilinea delle comete, che implicava necessariamente il moto della terra a spiegarne la deviazione verso settentrione come un fenomeno ottico dovuto ai cambiamenti di posizione dell'osservatore [VI, 305].

Il saggiatore è straordinariamente piacevole ed incisivo, sia per la mirabile qualità letteraria dell'espressione, sia per la singolare novità e lo spessore filosofico e metodologico del contenuto. In particolare, la sapienza argomentativa di Galileo rivela tutta la sua forza nel far emergere l'inerzia speculativa, il dogmatismo sterile, il verbalismo vuoto dei naturalisti del tempo, cui viene proposta l'alternativa di un differente approccio alla comprensione dei fenomeni fisici, nutrito di rigore matematico e di concretezza empirica.

A riguardo, appare di notevole rilievo la decisa critica sollevata nei confronti del principio d'autorità che impediva di deviare dalla tradizione smentendo se necessario anche i grandi del passato, fino ad Aristotele stesso [VI, 231]. Accanto all'esigenza di un'osservazione diretta della natura viene lapidariamente sostenuta l'imprescindibilità delle conoscenze matematiche ai fini dell'indagine naturale [VI, 232]. La «geometrica strettezza», come la chiama Galileo, ossia il rigore matematico, ha il potere di smascherare i facili sofismi e gli ingannevoli e svianti artifici retorici con cui si tenta di sostenere le opinioni più traballanti e fallaci, e fa emergere in modo netto ed immediato la correttezza dell'argomentazione, consentendo di giudicare agevolmente la verità o la falsità delle conclusioni.

Le qualità primarie e secondarie e la questione dell’eucaristia

L'idea di una scienza esatta e precisa emerge anche dalle pagine del Saggiatore dedicate ad una cruciale e assai famosa distinzione tra due tipi di differenti qualità dei corpi, le primarie, relative per Galileo a ogni caratteristica misurabile del corpo e frutto dell'attività di particelle minime che compongono la materia (gli atomi), e le secondarie (colore, sapore, odore, etc.), che danno a chi osserva l'illusione di una differenza fra i corpi osservati, ma che in realtà non apportano alcun incremento di conoscenza a riguardo [VI, 347].

Il padre Grassi, replicando al Saggiatore, nella sua Ratio ponderum librae et simbellae, pubblicata a Parigi nel 1626 ancora sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi, volle veder violata l'eterodossia dottrinaria in quella concezione della materia e della sensazione. Considerazioni rigorosamente interne alla fisica gli sembravano in conflitto con un importante precetto della Chiesa di Roma: il miracolo eucaristico. La dottrina cattolica dell'eucaristia era stata minutamente precisata, soprattutto in funzione antiprotestante, nella tredicesima sessione (ottobre 1551) del Concilio di Trento. Il canone tridentino affermava decisamente la persistenza delle sembianze esterne del pane e del vino. Mentre la sostanza cambiava, le "specie" (cioè il colore, sapore, odore, ecc., dell'ostia) permanevano senza alcuna mutazione. Il miracolo eucaristico risiedeva appunto in questa trasformazione della sostanza ("transustanziazione"), cui si accompagnava la conservazione delle apparenze sensibili del pane e del vino. Ora, Galileo aveva ridotto tali sembianze esterne a «puri nomi», esistenti solo come modificazioni della sensibilità del soggetto percipiente e non come effettive qualità degli oggetti percepiti. La sua concezione sembrava, quindi, in contraddizione con la realtà delle specie eucaristiche sancita dal Concilio tridentino.

A dire il vero, le pagine del Saggiatore non contenevano neppure una parola in merito alle tematiche eucaristiche. Grassi estrapolava delle conseguenze implicite (a suo giudizio) nella teoria della materia di Galileo e nella sua spiegazione del meccanismo della sensazione. Non a caso egli asseriva di «inferire... che il calore e il sapore non sussistono nell'ostia». Di tale sinistra "inferenza", Galileo parve non curarsi affatto, tanto che postillò questo passo della Ratio ricordando l'accertata correttezza delle tesi esposte nel Saggiatore, debitamente esaminato ed approvato dalle autorità competenti, che gli avevano, senza alcun problema, rilasciato l'imprimatur [VI, 486].