Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632)

Storia editoriale (I)

Nel disegno filosofico di Galileo fin dagli anni padovani l'idea di un volume sulla costituzione dell'universo aveva subìto un rallentamento a seguito del processo del 1616, conclusosi con la sospensione di Copernico, con un'ammonizione verbale da parte del cardinale Bellarmino e con la dichiarazione di falsità della teoria della mobilità della Terra, ammissibile solo come ipotesi matematica, ma la cui verità in natura da quel momento in poi era divenuto impossibile difendere o sostenere.

Qualche spiraglio di speranza era parso balenare grazie all'elezione di Urbano VIII, la cui reputazione di papa illuminato e non pregiudizialmente avverso ai progressi scientifici spinse Galileo per due volte fino a Roma, nel 1624 e nel 1630, nel vano tentativo di riabilitazione del copernicanesimo. Fidando nella solidità diplomatica lincea, nelle amichevoli intercessioni del cardinale Friedrich Eutel von Zollern (a casa del quale aveva conosciuto Niccolò Riccardi, detto il Padre Mostro per la scarsa avvenenza, che già aveva concesso l'imprimatur al suo Saggiatore) e probabilmente lusingato dalle sei udienze concessegli dal «moderno pontefice» in persona, Galileo, forse già al ritorno dal primo viaggio, pensò di mettere in atto i propositi tenuti in mira fin dalla gioventù.

Il dialogo cui dichiara di lavorare sul finire del 1624 era però un «'Dialogo del flusso e reflusso', che si tira in conseguenza il sistema copernicano». Le maree, da un ventennio anch'esse nel mirino geocinetico di Galileo, gli avrebbero offerto il destro di trattare «diffusamente... i due sistemi tolemaico e copernicano», creando nella cerchia degli amici e sostenitori l'aspettativa di vedere «in luce le maraviglie di natura incognite all'antichità».

Storia editoriale (II)

Interrotta negli anni successivi la scrittura per motivi di salute e beghe familiari, il lavoro non riprenderà se non nel settembre del 1629, lievitando dagli effetti alle cause e inglobando, al di là del moto di marea, «molti altri problemi et una amplissima confermazione del sistema copernicano, con mostrar la nullità di tutto quello che da Ticone e da altri vien portato in contrario».

Passibile di ritocchi, ma di fatto conclusa, l'opera approdò nel 1630 a Roma, dove Galileo si era recato con l'obiettivo specifico di ottenere l'imprimatur per un'edizione romana. La stampa sarebbe stata curata, di nuovo, dall'Accademia dei Lincei. La commissione di teologi incaricata di esaminare il Dialogo nel 1632, immediatamente prima del processo, avrebbe scritto a posteriori di come Niccolò Riccardi (che della commissione era membro), letto il manoscritto e giudicato il copernicanesimo di Galileo asserito troppo in assoluto, avesse fatto «risoluzione... che si rivedesse il libro e si riducesse a hipotetico» e lo avesse affidato a un suo collaboratore, il domenicano Raffaello Visconti, che lo rilesse e lo corresse «in molti luoghi». Altro appare però da una lettera scritta dallo stesso Visconti a Galileo nel giugno del 1630:

Il Padre Maestro gli bacia le mani, et dice che l'opera gli piace et che domattina parlerà con il Papa per il frontispizio dell'opera, et che del resto, accomodando alcune poche cosette, simili a quelle che accommodammo insieme, gli darà il libro.

Indipendentemente dal reale gradimento del Riccardi e dalla effettiva entità delle correzioni apportate, l'imprimatur, di fatto, fu concesso nell'estate del 1630.

Ma nel giro di pochissimo tempo lo scenario romano si incupì, per la morte improvvisa di Federico Cesi. E non solo: «per molti degni rispetti che io non voglio mettere in carta hora, oltra all'essere mancato di questa vita il s.r principe Cesis», scriveva a Galileo Benedetto Castelli, che evidentemente presagiva tempeste, «crederei che fosse ben fatto che V.S. molto Ill.re facesse stampare il suo libro costì in Firenze». Si seguì il consiglio. L'11 settembre arrivò l'imprimatur dell'Inquisizione fiorentina nelle persone di Pietro Niccolini, Vicario Generale, e Clemente Egidi, Inquisitore Generale, e il 12 settembre fu rilasciato il si stampi da Niccolò dell'Antella, Revisore Granducale. Il Padre Mostro ebbe in visione proemio e epilogo, mentre il corpo dell'opera, che avrebbe corso troppi rischi per decontaminazioni e quarantene imposte dallo scoppio di un'epidemia di peste, fu sottoposto in loco al controllo del domenicano fiorentino Giacinto Stefani, che apportò unicamente correzioni formali.

Storia editoriale (III)

Per molti mesi non si ebbe da Roma nessuna notizia. «L'opera si sta in un cantone, la mia vita si consuma, et io la passo con travaglio continuo», scriveva Galileo al Segretario di Stato del Granducato di Toscana Andrea Cioli. Soltanto nel maggio del 1631, previe insistenze dell'ambasciatore toscano a Roma Francesco Niccolini, il Padre Mostro inviava all'Inquisitore Clemente Egidi le condizioni imposte da Urbano VIII alla concessione dei permessi. Tollerata al fine di controbattere alle accuse di ignoranza che venivano mosse dall'estero all'aristotelismo irriducibile della Chiesa, l'opera, quanto al titolo e al soggetto, non poteva vertere sul «flusso e reflusso», ma esclusivamente sulla «mattematica considerazione della posizione copernicana intorno al moto della Terra» e doveva esporre «le raggioni della divina onnipotenza... le quali devono quietar l'intelletto, ancorché da gl'argomenti Pittagorici non se ne potesse uscire». Il papa bandiva così le maree, per cautelarsi dal veder provata fisicamente una verità naturale che si voleva relegata a mera ipotesi matematica, e pretendeva che si mettessero a tacere le argomentazioni copernicane contrastanti con la Sacra Scrittura, opponendo loro le infinite possibilità operative dell'onnipotenza divina, davanti alle quali le modeste capacità della ragione umana non potevano se non capitolare.

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, dedicato a Ferdinando II de' Medici Granduca di Toscana, si finì di stampare presso Giovambattista Landini il 21 febbraio 1632, con l'esibizione di tutte le autorizzazioni ottenute, sia a Roma che a Firenze. Noti a tutti gli esiti nefasti della pubblicazione. Meno nota, forse, la parte che vi ebbe la questione dell'imprimatur. Pochi mesi dopo l'uscita, nella lettera scritta dal Padre Mostro (ma solo materialmente) all'Inquisitore Clemente Egidi per bloccare la diffusione del libro, gli animi erano così maldisposti da sospettare addirittura che «l'impresa de' tre pesci», recante il motto grandior ut proles, non fosse il marchio tipografico del Landini, ma una bizzarria di Galileo allusiva alla politica nepotistica del papa, già da più parti criticata. In particolare gli veniva rimproverato di aver inserito fra i nullaosta delle autorità quello rilasciato dal Riccardi per l'edizione romana non fatta, visto che il Maestro del Sacro Palazzo non aveva «a che fare con le stampe di fuori» e, oltretutto, «era stato aggirato... col cavarli di mano con belle parole la sottoscrittione del libro». Galileo, poi, non aveva certo seguito alla lettera «tutto quel che Sua Santità comandava»: le maree erano di fatto portate come prova fisica del sistema copernicano e l'argomento papale dell'onnipotenza divina era stato messo in bocca a Simplicio, lo sprovveduto di turno, sciocco e  credulone, che nel Dialogo incarnava l'ottusità aristotelica. Il processo, poi, seguì altre vie. Salvo qualche accenno nelle deposizioni e nelle testimonianze, la questione delle licenze di stampa, fondamentale per far istruire la procedura, non trovò spazio né nel dispositivo della sentenza, né nel testo dell'abiura, tutte incentrate sul veemente sospetto di adesione al «grave e pernicioso errore» copernicano. Il Dialogo fu proibito e inserito nell'Indice il 23 agosto 1634, procurando al tipografo Landini ingenti perdite, delle quali cercò di farsi risarcire da Galileo per vie legali. La macchina della censura ecclesiastica, però, non aveva funzionato e lo strumento dell'imprimatur si era rivelato questa volta profilassi inefficace contro la libera circolazione delle idee.

Prologo

Dopo la breve dedicatoria al «Serenissimo Granduca», l'opera si apre con la prefazione Al discreto lettore, plaudendo secondo gli obblighi diplomatici alla censura anticopernicana del 1616, quel «salutifero editto, che, per ovviare a' pericolosi scandoli dell'età presente, imponeva opportuno silenzio all'opinione Pittagorica della mobilità della Terra», una «prudentissima determinazione» di cui Galileo dichiarava di aver ricevuto «antecedente informazione» [VII, 29]. Giustificava poi il proprio scritto come un modo di far vedere al resto d'Europa, dove si muovevano accuse d'ignoranza alle gerarchie ecclesiastiche, che a Roma come altrove si trattavano certe materie con cognizione di causa [VII, 29-30]. Anche alla disposizione del revisore Niccolò Riccardi (direttamente sollecitata dal papa) che alla dottrina copernicana «non mai si conceda la verità assoluta, ma solamente la hipotetica», veniva devotamente data dignità teorica. Dopo aver illustrato i «capi principali» discussi nell'opera, Galileo concludeva riprendendo il motivo (caro ad Urbano VIII) della incertezza delle conoscenze umane, sottoposte all'incognita del libero ed onnipotente volere di Dio [VII, 30].

Prima giornata

La Prima giornata è dedicata alla discussione critica di alcuni capisaldi della concezione del mondo aristotelica, in particolare della distinzione di natura e sostanza tra la regione celeste (ingenerabile ed incorruttibile) e quella terrestre (alterabile e mutevole). Mentre i cieli si muovevano per Aristotele secondo un moto circolare privo di contrari e quindi non soggetto a modificazioni, nella materia elementare terrestre si davano solo moti rettilinei, perennemente alterati dal loro contrario.

Contro questa teoria peripatetica Salviati sostiene l'impossibilità di un moto diverso dal circolare per i «corpi integrali del mondo», perché un moto rettilineo li porterebbe gioco forza ad abbandonare il loro luogo naturale (la sfera terrestre), ed essendo infinito per natura (perché infinita è la linea retta) li condurrebbe «dove è impossibile arrivare», non essendoci termine finito. E a differenza del  movimento circolare, per sua natura uniforme, il moto rettilineo è caratterizzato dall'accelerazione [VII, 43].

Perciò se anche rettilinea è la fase iniziale del moto, la sua prosecuzione non può essere che circolare. Un corpo posto su un piano orizzontale continuerà infatti a muoversi perennemente in modo uniforme (non acquistando, né perdendo «naturalmente» velocità) e, quando fosse in quiete, «già mai non vi si muoverà», comportamento inerziale proprio dei moti attorno ad un centro. Il moto circolare si svolge dunque «perpetuamente con velocità uniforme», ma esso «non s'acquisterà mai naturalmente senza il moto retto precedente» [VII, 44-53].

Salviati può ora esporre più chiaramente un «concetto Platonico», illustrato da un amico «Accademico Linceo», cioè da Galileo stesso. Si immagina che Dio, dopo aver «fabbricati» tutti i pianeti nel medesimo luogo, abbia loro dato «l'inclinazione di muoversi, discendendo verso il centro», per trasformare successivamente il moto retto e accelerato in un movimento circolare uniforme attorno al Sole. Secondo Galileo (ma i calcoli saranno poi dimostrati da Isaac Newton incongruenti) conoscendo la distanza che separa le orbite dei vari pianeti, la loro velocità di rotazione e la «proporzione dell'accelerazione del moto naturale», si può determinare la distanza dal centro del punto di partenza [VII, 53-54].

Nella cosmogonia descritta da Salviati la Terra condivide con tutti gli altri «globi» del sistema solare il moto circolare che preserva l'ordine del cosmo. Alla mobilità terrestre il peripatetico Simplicio contrappone le tesi aristoteliche sul moto naturale rettilineo degli elementi (terra e acqua verso il basso, fuoco e aria verso l'alto) e l'immobilità della Terra al centro dell'universo inevitabilmente deducibile da quelle premesse. Ma Salviati spiega quegli stessi fenomeni con la teoria copernicana della gravità, secondo cui le parti di tutti i pianeti tendono a dirigersi verso il proprio centro. In tal senso, anche «le parti della Terra si muovono non per andar al centro del mondo, ma per andare a riunirsi col suo tutto, e… per ciò hanno naturale inclinazione verso il centro del globo terrestre» [VII, 57-58].

La distinzione aristotelica tra la materia celeste, perfetta ed incorruttibile, e quella terrestre, esposta a degenerazioni e a mutamenti, è l'argomento principale opposto da Simplicio alla mobilità della Terra: la separazione netta tra mondo sublunare e sfere celesti non consente di considerarla un pianeta e di attribuirle quindi un moto circolare [VII, 59]. La discussione sulla inalterabilità dei cieli occupa gran parte della Prima giornata e Galileo non manca di inserirvi un duro attacco ai pregiudizi che alimentano una credenza simile, nati dall'estensione all'indagine naturalistica dell'umano timore della morte [VII, 84].

Al di là delle incursioni nel campo della psicologia collettiva, Salviati e Sagredo contestano l'incorruttibilità dei cieli, invocando tutti i riscontri empirici che la smentiscono: la comparsa di novae e comete [VII, 76-77], la fioritura di macchie sul Sole (evidenti mutamenti della sfera celeste) [VII, 78-80], e soprattutto la similitudine fra Terra e Luna, inequivocabilmente osservata al telescopio, a negazione della presunta differenza radicale tra il nostro pianeta e gli altri astri. L'affinità tra Luna e Terra è confermata dall'identico modo in cui entrambe le loro superfici riflettono la luce del Sole [VII, 87-124]. E Salviati si sofferma a spiegare il fenomeno della luce cinerea della Luna quando ne appare illuminata solo una «sottil falce» [VII, 88-92], continuando a mostrare, col contraltare di Sagredo e con l'aiuto di uno specchio appeso al muro, come le caratteristiche della riflessione della luce del Sole provino la scabrosità, opacità e irregolarità del suolo lunare [VII, 93-124].

La successiva discussione sull'eventuale presenza di esseri animati sulla Luna è pretesto per evocare la sterminata varietà e ricchezza del mondo naturale. I limiti quantitativi delle sue capacità non consentono all'uomo di conoscere la natura extensive, di scoprirne cioè tutti gli infiniti aspetti, che sono solo nella mente del creatore. Ma quanto ad intenderne intensive alcuni (cioè le proposizioni matematiche), ovverosia a conoscerli approfonditamente fino a raggiungere conclusioni certe, l'intelletto umano eguaglia il divino [VII, 128-129]. La Prima giornata si chiude dunque con un'apoteosi dell'ingegno umano, la cui «acutezza» è alla radice delle «tante e tanto maravigliose invenzioni trovate dagli uomini, sì nelle arti come nelle lettere» [VII, 130].

Seconda giornata

Tema centrale della Seconda giornata è il moto diurno della Terra. Quasi all'esordio del dibattito, dopo un attacco alla «pusillanimità d'alcuni seguaci d'Aristotele» che hanno il terrore di «mutare opinione», cosa che lui stesso farebbe correggendo anche i propri scritti, una volta viste «le novità scoperte in cielo» [VII, 134-138], Salviati elenca i motivi principali per ammettere il moto terrestre intorno al proprio asse.

Prima di tutto una rotazione su se stesso del nostro piccolo pianeta è più semplice e plausibile rispetto ad una circonvoluzione dell'immensa sfera celeste che dovrebbe essere rapidissima durando solo ventiquattr'ore. La natura infatti «non opera con l'intervento di molte cose quel che si può fare col mezo di poche» [VII, 142].

In secondo luogo, ammettendo una Terra assolutamente immobile secondo il sistema tolemaico, il moto della sfera celeste deve avvenire nella direzione opposta (da est a ovest) rispetto a quello dei pianeti (che procede da ovest a est), mentre nel caso di una Terra in movimento su se stessa il senso del suo moto da occidente verso oriente coinciderebbe con quello degli altri pianeti [VII, 143-144].

Oltretutto, mentre i pianeti sono tanto più veloci quanto più sono vicini al centro della loro rotazione (Saturno compie la sua rivoluzione in 30 anni, Giove in 12, Marte in 2), sarebbe ben strano che la sfera delle stelle fisse (la più esterna) si volgesse attorno al centro dell'universo in un tempo estremamente più breve in confronto ai pianeti che gli sono più prossimi [VII, 145].

Attribuendo un moto diurno alla Terra si elimina inoltre l'inconveniente delle differenze che si darebbero in una «sfera stellata mobile» tra le stelle circostanti l'equatore che dovrebbero muoversi «velocissimamente in cerchi vastissimi» e quelle vicine ai poli che invece ruoterebbero «lentissimamente in cerchi piccolissimi», e si risolve anche il problema della precessione degli equinozi, per cui uno stesso astro dovrebbe cambiare posizione (e conseguentemente velocità), seppure a distanza di un lungo lasso di tempo [VII, 145-146].

Per giunta, rileva ancora Salviati, quanto dovrebbe esser solida quella sfera sulla quale sono «così tenacemente saldate» tante stelle, mai scompaginate da una così turbinosa rotazione? Né si potrebbe credere che una conversione in grado di trascinare «l'innumerabil moltitudine» delle stelle fisse insieme a tutti i pianeti, non avesse alcuna ripercussione sul «solo piccol globo della Terra», unico a restar «contumace e renitente a tanta virtú», senza esser trascinato via da un tale irresistibile vortice. Non si tratta di prove certe del moto diurno della Terra, conclude Salviati,  ma di alcune soluzioni che lo rendono «non del tutto improbabile» [VII, 146-148].

La discussione si sposta quindi sulla confutazione degli argomenti contrari al moto della Terra portati dagli antichi (Aristotele e Tolomeo) e ripresi dai moderni (Tycho Brahe), secondo i quali se la Terra si muovesse, il comportamento dei corpi in caduta non dovrebbe essere quello che l'esperienza ci mostra quotidianamente. Un sasso lasciato cadere da una torre, per esempio, non atterrerebbe al piede dell'edificio, ma più in là verso oriente, perché nel lasso di tempo impiegato a scendere, la Terra si sarebbe già spostata. Lo stesso, adducevano a prova, avviene se una palla di piombo precipiti dalla sommità dell'albero di una nave: se l'imbarcazione si trova in quiete, la palla toccherà il suolo vicino alla base dell'albero, mentre «quando la nave cammini, la sua percossa sarà lontana dall'altra per tanto spazio quanto la nave sarà scorsa innanzi nel tempo della caduta del piombo» [VII, 152].

Non solo Salviati chiarisce sulla base dell'esperienza che le prove degli anticopernicani sono false, perché un grave caduto dall'albero di una nave batte nello stesso punto sia che la nave si muova, sia che stia ferma [VII, 170], ma va oltre spiegando come il moto sia moto solo rispetto a ciò che si trovi in quiete, mentre per chi stia all'interno di un certo sistema di riferimento (sia una nave oppure sia la Terra) è impossibile stabilire se il sistema di cui è parte sia in quiete o in movimento, perché il suo eventuale moto resta impercettibile per le sue singole parti, che si muovono con lui. Quindi per queste il moto del sistema è «come se non fusse» [VII, 197]. Con una finezza letteraria ed espressiva quasi pittorica Salviati chiarisce ulteriormente il concetto con l'esempio di un «gran navilio»,  all'interno del quale passeggeri e suppellettili hanno comportamenti analoghi, sia esso in navigazione oppure attraccato al porto. La causa di tutto questo è «l'esser il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed all'aria ancora» [VII, 212-213]. Nelle note marginali alla propria copia del Dialogo Galileo definirà questa del «navilio» un'«esperienza con la qual sola si mostra la nullità di tutte le prodotte contro al moto della Terra».

Questo «moto universale della nave» è inoltre un moto inerziale che la porta a navigare perpetuamente una volta ricevuta la spinta al movimento, mancando la quale resterebbe perpetuamente in quiete. Cenni all'inerzia ritornano più volte durante la Seconda giornata,  in riferimento a corpi mobili che «rimossi tutti gli ostacoli accidentarii ed esterni», continuano «a muoversi, con l'impulso concepito una volta, incessabilmente e uniformemente» [VII, 53; VII, 172-175; VII, 201]. Si lasci alla storiografia stabilire, caso fosse mai possibile, se Galileo concepisse il moto inerziale unicamente come circolare (cioè proprio di corpi che, in quanto gravi, tendono sempre a raggiungere il centro del proprio sistema di riferimento) o se ammettesse anche la possibilità in natura della prosecuzione indefinita del moto rettilineo, anche perché in Galileo non si può sensatamente parlare di formulazione del principio d'inerzia come se fossimo nell'ambito della moderna fisica newtoniana, ma solo di alcune considerazioni preliminari al principio della relatività del moto.

La giornata si conclude con la demolizione di altri argomenti marginali opposti dai peripatetici per bocca di Simplicio all'ipotesi del moto diurno della Terra, dal vento impetuoso che questa rotazione dovrebbe cagionare [VII, 278-279], all'ottundimento dei nostri sensi che non percepirebbero quel moto [VII, 279-280], all'impossibilità per la Terra di muoversi di tre moti diversi [VII, 282-289], all'assurdità che elementi diversi come aria, acqua, terra e fuoco possano compiere le stesse operazioni [VII, 290], fino ai più fantasiosi come quello preso da Scipione Chiaramonti, secondo cui la Terra, essendo un essere vivente, dovrebbe ogni tanto riposarsi, fiaccata da questo moto perpetuo [VII, 293-298].

Terza giornata

Nella Terza giornata il dibattito si concentra essenzialmente sul moto annuo terrestre. Dopo aver confutato le tesi di Scipione Chiaramonti nel De tribus novis stellis (Cesena, 1628) sulla posizione sublunare delle novae [VII, 303-347], Salviati espone gli argomenti a favore di un'eventuale rivoluzione della Terra intorno al Sole, evidenziando in via preliminare come le «evidentissime, e perciò necessariamente concludenti, osservazioni» delle smisurate variazioni nelle distanze dei pianeti dalla Terra (per cui, ad esempio, «Marte vicino si vede ben 60 volte maggiore che quando è lontanissimo») contribuiscano ad escludere che la Terra occupi il centro delle orbite degli atri pianeti, i quali dovrebbero in quel caso trovarsi sempre alla medesima distanza da lei [VII, 349-350].

Inoltre Mercurio e Venere, mai opposti alla Terra e caratterizzati dall'alternanza di fasi, si muovono evidentemente attorno al Sole. Marte invece, mostrandosi in opposizione per alcuni periodi dell'anno, «è necessario che co 'l suo cerchio abbracci la Terra» e che «includa dentro al suo cerchio non meno il Sole che la Terra», mantenendo sempre un aspetto identico senza mai crescere o calare. Lo stesso vale per Giove e Saturno che disegnano anch'essi orbite circumsolari esterne a quella terrestre. Pertanto, conclude Salviati, visto che Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno si muovono intorno al Sole, sarà più ragionevole pensare che sia il Sole a star fermo, in quanto centro di sfere mobili, e non la Terra, alla quale «molto acconciamente si può attribuire il movimento d'un anno», essendo situata fra Venere (la cui rivoluzione dura nove mesi) e Marte (che ruota in due anni) [VII, 350-354].

Al termine di questa meticolosa ricostruzione dell'universo copernicano, Salviati non può fare a meno di sottolineare come sarebbe stato impossibile arrivare a quelle conclusioni basandosi unicamente sui sensi, senza un'elaborazione razionale dei dati empirici, gli unici cui la tradizione aristotelica attribuiva valore conoscitivo: «non posso trovar termine all'ammirazion mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragion tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità» [VII, 355].

Dopo aver risposto alle principali obiezioni opposte al sistema copernicano in merito alle apparenze di Venere, alle variazioni di grandezza di Venere e Marte, alla possibilità della Terra di ruotare trascinandosi dietro la Luna (ormai evidentemente ammessa dopo l'osservazione del comportamento di Giove e dei suoi quattro satelliti), non senza aver dato una lezione sul funzionamento del telescopio e sugli accorgimenti per limitarne il più possibile l'errore [VII, 357-368] Salviati spiega le ragioni che avevano spinto Copernico a cambiare punto di vista rispetto alle «sconvenevolezze» del sistema tolemaico. Posto che «il principale scopo de i puri astronomi è il render solamente ragione delle apparenze ne i corpi celesti ed ad esse ed a i movimenti delle stelle adattar tali strutture e composizioni di cerchi, che i moti secondo quelle calcolati rispondano alle medesime apparenze», allora Copernico, poiché

molto ben intendeva, che se con assunti falsi in natura si potevan salvar le apparenze celesti, molto meglio ciò si sarebbe potuto ottenere dalle vere supposizioni, si messe a ricercar diligentemente se alcuno tra gli antichi uomini segnalati avesse attribuita al mondo altra struttura che la comunemente ricevuta di Tolomeo; e trovando che alcuni Pitagorici avevano in particolare attribuito alla Terra la conversion diurna, ed altri il movimento annuo ancora, cominciò a rincontrar con queste due nuove supposizioni le apparenze e le particolarità de i moti de i pianeti, le quali tutte cose egli aveva prontamente alle mani, e vedendo il tutto con mirabil facilità corrisponder con le sue parti, abbracciò questa nuova costituzione ed in essa si quietò [VII, 369].

Questo gli permise di eliminare una nutrita serie di difficoltà conseguenti all'assunto dell'immobilità della Terra, come «stazioni», «regressi» e irregolarità nei moti dei pianeti [VII, 370-372].

Un ulteriore conferma dell'idea copernicana viene dall'osservazione delle traiettorie variabili delle macchie solari. Per bocca di Salviati, Galileo attribuisce la loro scoperta all'«Accademico Linceo», cioè a se stesso, intendendo metter fine alla polemica ormai ventennale con Cristoph Scheiner sulla paternità della prima osservazione [VII, 372]. L'alternarsi di percorsi rettilinei e curvilinei nelle macchie può essere infatti efficacemente attribuita per un verso all'inclinazione dell'asse del Sole rispetto al piano dell'eclittica, e per l'altro alla rivoluzione annua terrestre. Perciò le «stravaganti mutazioni» dei «progressi» delle macchie trovano agevole soluzione «tuttavolta che fusse stato vero che il movimento annuo fusse della Terra, e che il Sole, costituito nel centro dell'eclittica, si fusse girato in sé stesso sopra un asse non eretto, ma inclinato, al piano di essa eclittica». [VII, 374-380].

Nel rispondere ad alcune obiezioni portate dai teologi, dagli aristotelici e da Tycho Brahe contro il sistema copernicano riguardo agli eventuali moti del Sole, alle grandezze e alle distanze delle stelle [VII, 380-399], Salviati si sofferma polemicamente sui rapporti fra uomo e natura, giudicando impensabili per il nostro intelletto le grandezze e i numeri di tutto l'universo e gran «temerità voler far giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio, e chiamar vano o superfluo tutto quello dell'universo che non serve per noi» [VII, 395].

Anche Niccolò Copernico, «per mancamento di strumenti esatti» ha commesso qualche errore [VII, 400-416]. Soprattutto uno: pensando gli astri trasportati da sfere solide, ha dovuto ipotizzare un terzo moto della Terra (il moto di declinazione), per mantenere l'asse terrestre sempre rivolto verso lo stesso punto della sfera celeste. Ma la Terra, spiega Salviati, non è conficcata in una sfera che la trasporta, ma è un «globo pensile e librato in aria tenue e cedente» che mantiene l'asse di rotazione diurna costantemente parallelo a sé stesso, e una volta che il polo «riguardi verso una tale stella o altra parte del firmamento», «verso la medesima si mantien sempre diretta, benché portata co 'l moto annuo per la circonferenza di esso orbe magno» [VII, 416-425].

La costanza del globo terrestre nel «riguardar con sue determinate parti verso determinate parti del firmamento» è dovuta anche a una «mirabile virtù intrinseca» di cui la Terra è pervasa: la «virtù magnetica». Infatti, «quanto alla sua interna e primaria sustanza», la Terra «altro non è che un'immensa mole di calamita» [VII, 426]. Salviati, pur con qualche punta di scetticismo, confessa la sua adesione alla "filosofia magnetica" di William Gilbert, che nel suo De magnete (1600), aveva assimilato la Terra a un'enorme calamita. Fra la discussione di alcuni argomenti del Gilbert e la descrizione di alcuni esperimenti sulle calamite armate [VII, 426-440], la giornata volge al termine. Ai tre amici non resta che sospendere, rimandando al giorno seguente il punto capitale, l'esame dell'«accidente massimo», il fulcro originale di tutti i loro «ragionamenti», ovverosia il «flusso e reflusso del mare» [VII, 439].

Quarta giornata

Il tema delle maree è di fatto l'argomento esclusivo della Quarta giornata, già da tempo sviscerato nel Discorso del flusso e reflusso del mare [V, 373-395], mai pubblicato da Galileo, ma circolante fin dal 1616. Senza por tempo in mezzo, già dalle prime battute si evidenzia il legame fra moto di marea e moto della Terra, in assenza del quale qualsiasi variazione di livello nel mare sarebbe impossibile [VII, 442-444]. Di fronte agli argomenti (erroneamente) addotti da Salviati contro un coinvolgimento dell'azione lunare sul flusso e reflusso del mare [VII, 445-447], Simplicio osserva che, «quando non [...] fusser porte ragioni piú conformi alle cose naturali», si dovrebbe ritenere il fenomeno «un effetto sopra naturale, e per ciò miracoloso e imperscrutabile da gl'intelletti umani, come infiniti altri ce ne sono, dependenti immediatamente dalla mano onnipotente di Dio». Al primo manifestarsi in bocca a Simplicio della posizione di papa Urbano VIII, Sagredo e Salviati chiedono pazienza: la spiegazione delle maree fondata sul moto terrestre è così lampante, che merita ascoltare «i discorsi contenuti dentro a i termini naturali», prima di invocare miracoli soprannaturali [VII, 447-448].

Con l'esempio dell'andamento oscillatorio dell'acqua contenuta in un vaso cui venga conferito un movimento, Salviati chiarisce come la combinazione dei due moti, annuo (su se stessa) e diurno (intorno al Sole), della Terra causi le continue accelerazioni e decelerazioni delle sue parti, e di conseguenza il fluttuare delle acque  [VII, 450-454]. Oltre a questa «potissima e primaria causa del flusso e reflusso, senza la quale nulla seguirebbe di tale effetto», vi sono «altre diverse cause concomitanti» che concorrono a formare e a influenzare la marea, ma non potrebbero causarla da sole: la tendenza naturale dell'acqua a tornare in equilibrio una volta sollevata; la maggior frequenza delle «reciprocazioni» negli spazi più brevi e nei bacini più profondi; i diversi moti dell'acqua all'estremità e al centro degli invasi; i diversi comportamenti dell'acqua negli oceani, nei piccoli mari o nei laghi e l'influsso sulle maree della loro forma e della loro posizione geografica [VII, 454-462].

Simplicio sfodera l'imposizione di Bellarmino e della gerarchia ecclesiastica tutta: di movimento terrestre si può parlare soltanto ex suppositione, non in termini di verità. Fuori dall'astrazione matematica, cioè nel campo della fisica, non restano che gli argomenti aristotelici classici contro il moto della Terra, basati unicamente sui sensi e su una concezione del mondo organizzata nei quattro elementi aria, acqua, terra e fuoco [VII, 462-463].  Salviati risponde punto per punto con l'aiuto di alcune dimostrazioni matematiche, poste a fondamento della nuova fisica [VII, 463-486], e con l'efficace spalla di Sagredo, così affascinato dal sistema copernicano, da affermarne esplicitamente la verità riguardo alla struttura dell'universo ed ai moti di alcuni pienteti (esclusa, ovviamente la Terra): «noi siamo certi che Mercurio, Venere e gli altri pianeti si volgono intorno al Sole, e che la Luna si volge intorno alla Terra. Ma come poi ciascun pianeta si governi nel suo rivolgimento particolare e come stia precisamente la struttura dell'orbe suo, che è quella che vulgarmente si chiama la sua teorica, non possiamo noi per ancora indubitatamente risolvere» [VII, 480]. Una critica rispettosa non è risparmiata neppure a Keplero, «il quale, d'ingegno libero ed acuto, e che aveva in mano i moti attribuiti alla Terra», ha però «dato orecchio ed assenso a predominii della Luna sopra l'acqua, ed a proprietà occulte, e simili fanciullezze» [VII, 486]. In effetti, riguardo alle osservazione di un legame stretto fra le maree e i movimenti della Luna, era Keplero ad avere ragione, mentre a Galileo toccava questa volta essere schiavo di un pregiudizio antiastrologico che sarebbe stato sfatato di lì a poco in un sistema newtoniano di reciproca attrazione gravitazionale fra i pianeti.

Esaurito il tema del moto di marea, e riepilogate da Sagredo le tre principali «attestazioni a favor del sistema Copernicano», ovverosia le «stazioni e retrogradazioni de i pianeti e… i loro accostamenti e allontanamenti dalla Terra», la «revoluzion del Sole in se stesso e… quello che nelle sue macchie si osserva» e, in ultimo, «i flussi e reflussi del mare», Simplicio, non riuscendo ad uscire dalla strettezza degli «argomenti Pittagorici», chiama nuovamente in causa l'onnipotenza divina, attribuendone al papa la paternità, pur senza farne esplicitamente il nome:

quanto poi a i discorsi avuti, ed in particolare in quest'ultimo intorno alla ragione del flusso e reflusso del mare, io veramente non ne resto interamente capace; ma per quella qual si sia assai tenue idea che me ne son formata, confesso, il vostro pensiero parermi bene piú ingegnoso di quanti altri io me n'abbia sentiti, ma non però lo stimo verace e concludente: anzi, ritenendo sempre avanti a gli occhi della mente una saldissima dottrina, che già da persona dottissima ed eminentissima appresi ed alla quale è forza quietarsi, so che amendue voi, interrogati se Iddio con la Sua infinita potenza e sapienza poteva conferire all'elemento dell'acqua il reciproco movimento, che in esso scorgiamo, in altro modo che co 'l far muovere il vaso contenente, so, dico, che risponderete, avere egli potuto e saputo ciò fare in molti modi, ed anco dall'intelletto nostro inescogitabili. Onde io immediatamente vi concludo che, stante questo, soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare [VII, 487-488].

La battuta conclusiva di Salviati addomestica l'argomento di Simplicio (e del papa) equiparandolo di fatto alla «mirabile e veramente angelica dottrina» delle maree. La teoria papale, «pur divina» (e si esalta tacendo la divinità dell'altra),

mentre ci concede il disputare intorno alla costituzione del mondo, ci soggiugne (forse acciò che l'esercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca) che non siamo per ritrovare l'opera fabbricata dalle Sue mani. Vaglia dunque l'esercizio permessoci ed ordinatoci da Dio per riconoscere e tanto maggiormente ammirare la grandeza Sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della Sua infinita sapienza [VII, 488-489].

L'ultima parola a Sagredo, che conclude il Dialogo lasciando aperte le porte alla «nuova scienza… intorno ai moti locali, naturale e violento». Ma non subito: Salviati ha speso tutte le energie nel sistema cosmico e ha bisogno di «qualche intervallo di riposo». Così invita gli amici: «in tanto potremo, secondo il solito, andare a gustare per un'ora de' nostri freschi nella gondola che ci aspetta» [VII, 489].