Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638)

Storia editoriale

Uno di questi giorni venni a proposito col Padre Inquisitore di ristampare il 'Discorso delle cose che galleggiano'. Mi disse havere espressa comissione da Roma in contrario. Le replicai potere ciò essere dell'opera circa il sistema copernicano. "No", mi replicò, "è divieto generale de editis omnibus et edendis". Le dissi: "Ma se vorrà stampar il Credo o Pater noster?". Restassimo che mi darà copia della comissione, a ciò possa ancor io adoperarmi, perché ho assai rissolutione contra la tirrania, ma col riguardo di non far danno allo stampatore.

Così Fulgenzio Micanzio a Galileo il 10 febbraio 1635. Non solo la condanna, quindi, l'abiura, il confino, la proibizione di trattare materie celesti, ma anche il divieto agli inquisitori di rilasciare permessi di stampa per le opere di Galileo, fossero già edite o ancora inedite. Neanche più risposte, quindi, «alle opposizioni in materia di scienze», tantomeno «agli scherni, alle mordacità et all'ingiurie» dei suoi detrattori.

All'estero, però, le opere di Galileo si stampavano eccome. A parte il tentativo fallito da Pierre Carcavy di ripubblicare l'intero corpus dei suoi scritti, a Parigi Marin Mersenne curò la traduzione francese de Le mecaniche presso l'editore Guenon, a Strasburgo Mathias Bernegger tradusse in latino il Dialogo e lo diede agli Elzevier, che si accollarono anche la stampa della versione latina, sempre patrocinata dal Bernegger, della Lettera a Cristina di Lorena.

Galileo, non riuscendo a «dar quiete» al suo «inquieto cervello», aveva ripreso in mano i suoi studi di fisica, preclusogli ormai per decreto il campo astronomico. Non era ancora rientrato a Firenze, a pochi mesi dal processo e dalla condanna, che già, durante il soggiorno senese che lo vide sotto custodia cautelare nella residenza del vescovo Ascanio Piccolomini, riceveva da Mario Guiducci una lettera di complimenti per «il buon progresso delle speculazioni» e «la speranza... di continuare... in iscrivere» durante l'inverno. Era buona cosa per il Guiducci che Galileo si occupasse di «altre materie», per dimostrare di non essersi «ingolfato... nella considerazione del sistema copernicano» e garantirsi «notabilissimo scarico delle passate traversie appresso di qualsivoglia persona intendente». Verso la fine del 1634 Galileo rassicurava il Micanzio: il suo «trattato del moto» stava «all'ordine», ma richiedeva «gran dispendio di tempo», perché la riflessione continua sulle «novità» lo costringeva a «buttare a monte tutti i trovati precedenti».

Ben prima della pubblicazione l'opera cominciò a diffondersi per l'Europa, in brani. I corrispondenti leggevano, commentavano, consigliavano, davano apporti al lavoro in fieri, da Parigi come da Roma. Nel febbraio del 1635 a Venezia il Micanzio, che di fatto si occupò dell'editing per la stampa, organizzava un consulto di esperti, Paolo Aproino, Andrea Argoli e Antoine de Ville, ingegnere di Tolosa, per un esame minuto di soli sei fogli manoscritti, gli unici di cui era in possesso al momento. Si inviavano a Galileo dimostrazioni da commentare nel testo, se ne richiedevano certi scampoli, ci si lamentava di non averne visti altri.

Pubblicarlo non fu semplice: per gli editori era un rischio. In Italia neanche a parlarne. L'ingegnere militare Giovanni Pieroni si trovava per lavoro presso l'Imperatore: tentò a Vienna e a Praga, ma senza successo. Nel 1636 gli Elzevier, interpellati, accettarono di nuovo. Si rivelò iter tutt'altro che breve: Galileo fu lento, una serie di accidenti intralciò l'arrivo dei manoscritti a destinazione, nonostante più di un intermediario desse il proprio contributo alla causa. Si agì, forse, anche con prudenza. Nell'agosto del 1638, uscito da un mese il libro, Galileo venne a sapere che gli Elzevier si erano presi l'arbitrio di cambiare «l'intitolazione» da lui scelta «riducendola di nobile... a volgare troppo, per non dire plebea». Ne provò «maraviglia e travaglio». L'intervento chiesto a Marin Mersenne di far ristabilire il titolo originale non riuscì: i suoi Dialoghi (e non siamo a conoscenza del seguito) divennero Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. Troppo recente e ancor viva la memoria dell'altro Dialogo e della sua cruda sorte.

Galileo stesso era diventato più cauto: gli acciacchi dell'età, l'esperienza vissuta. Nella lettera di dedica al conte François de Noailles, antico allievo, dette a intendere di esser stato «improvvisamente... da gli Elzevirii avvisato» che le sue opere erano «sotto i torchi», e di esser rimasto stupito da quella «inopinata ed inaspettata nuova». Neppure aveva voluto includere, nonostante le insistenze del Micanzio, una risposta alle anticopernicane Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco, che lo aveva attaccato a colpi di veteroaristotelismo, forte del bavaglio impostogli in certe materie e sicuro quindi che non ci sarebbe stata replica. Le note taglienti di Galileo restarono lì, a margine della sua copia personale.

Fu anche l'ultimo a vedere il suo libro, a un anno dalla stampa. L'avevano già letto in molti, a Venezia, a Roma, a Strasburgo, a Parigi, in Olanda. Neppure seppe dell'arbitraria traduzione francese che Marin Mersenne pubblicò a poco più di due mesi di distanza, né mai l'ebbe in mano. Era arrivato prima di lui anche Cartesio, che non apprezzò i Discorsi: troppe digressioni, scarsa coerenza. Vecchio malandato e cieco, Galileo aveva preso dal cassetto i lavori di una vita, più o meno perfezionati, riducendoli nella forma dialogica che gli era più congeniale. Non gli bastarono le forze per approfondire tutte le ricerche, per dare più armonia all'insieme. Intatti, in appendice, i Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, rimasti (non soli) in latino, come quando li aveva scritti poco più che ventenne.

Qualcuno aveva consigliato Galileo di desistere dall'impresa della pubblicazione, visti i precedenti: sarebbe stato meglio mettere qualche copia manoscritta in alcune «librarie publiche et libere», lontano dall'Italia, «in Francia, in Germania o in Fiandra», così che chiunque fosse stato interessato si sarebbe potuto trascrivere il testo da solo, con rischi minimi per l'autore dell'opera. Ma sarebbe stata precauzione eccessiva: i suoi controllori, così attenti a ogni minimo movimento, così fiscali nella sorveglianza delle sue frequentazioni, rigidi al punto da negargli persino il permesso di curarsi in città, non si resero apparentemente conto di nulla, non mostrarono di vedere un'operazione di cui mezza Europa era a giorno. Si era deciso, evidentemente, di lasciar correre. In fondo Galileo trattava di struttura della materia (anche se di una struttura atomica vagamente imbarazzante), di moto dei corpi, e non (almeno esplicitamente) di questioni copernicane. Le autorità ecclesiastiche credettero di aver vinto la guerra, proibito il Dialogo e limitate voce e libertà a Galileo, che non si risollevò mai veramente e, nonostante la benevolenza del Granduca di Toscana, sovrano purtroppo di potenza infima a cospetto del papa, morì isolato e segregato nel 1642. Quello stesso anno nasceva Isaac Newton.

La dedicatoria dell’autore e la lettera dello stampatore ai lettori

Nella lettera di dedica al conte François de Noailles [VIII, 43-44] Galileo si dichiara «confuso e sbigottito» per proibizione del suo Dialogo, in conseguenza della quale avrebbe avuto l'idea di non stampare più niente, lasciando soltanto una versione manoscritta dei suoi studi già avviati al conte dedicatario, confidando che l'avrebbe conservata con cura. Ma il conte doveva averne fatta pervenire una copia agli editori, che a cose fatte avevano avvertito Galileo di averla stampata. A lui non resta così che dichiararsi «grato riconoscitore del generoso affetto» verso chi ha consentito che la sua fama superasse i confini «angusti» del proprio paese, facendole «spiegar le ale liberamente sotto il cielo aperto», e conclude la dedica pregando il conte «di difendere la sua riputazione contro a chi volesse offenderla».

Per parte sua lo stampatore nella lettera preliminare ai lettori [VIII, 45-46] cerca di far conoscere l'autore dell'opera, partendo da una considerazione generale: fin dall'antichità hanno goduto dell'universale stima non solo gli ideatori di «qualche invenzione» nelle arti e nelle scienze, ma anche coloro «i quali con l'acutezza de i loro ingegni hanno riformato le cose già trovate, scoprendo le fallacie e gli errori di molte e molte proposizioni portate da uomini insigni e ricevute per vere per molte età». A questi secondi «scopritori», degni di pari lode nonostante «avesseno solamente rimossa la falsità, senza introdurne la verità», appartiene Galileo Galilei. Con l'allusione nemmeno troppo velata a quelle sospette verità naturali che ne avevano causata la condanna, si entra nel merito delle «invenzioni» di Galileo, dalla «concludenza di molte ragioni intorno a varie conclusioni, con salde dimostrazioni confermate», alle scoperte astronomiche dovute all'uso del cannocchiale come strumento scientifico, fino a concludere con le «due intere scienzie nuove» presentate in questo volume per la prima volta: il moto locale e la resistenza dei solidi alle rotture violente.

Prima giornata

Salviati apre i Discorsi col riconoscimento del forte stimolo esercitato sugli «intelletti specolativi» dagli sviluppi della tecnica.

Largo campo di filosofare a gl'intelletti speculativi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale di voi, Signori Veneziani, ed in particolare in quella parte che mecanica si domanda; atteso che quivi ogni sorte di strumento e di machina vien continuamente posta da numero grande d'artefici, tra i quali, e per l'osservazioni fatte dai loro antecessori, e per quelle che di propria avvertenza vanno continuamente per se stessi facendo, è forza che ve ne siano de i peritissimi e di finissimo discorso [VIII, 49].

Dall'osservazione della pratica degli artigiani e dei "meccanici" si evince l'«inobbedienza delle machine in concreto alle medesime astratte ed ideali», cioè  l'incongruenza tra i principi teorici che presiedono alla costruzione delle macchine ed i vincoli imposti dai materiali impiegati per costruirle. Come spiega Salviati: «la machina maggiore, fabbricata dell'istessa materia e con l'istesse proporzioni che la minore, in tutte l'altre condizioni risponderà con giusta simmetria alla minore, fuor che nella robustezza e resistenza contro alle violente invasioni; ma quanto più sarà grande, tanto a proporzione sarà più debole» [VIII, 51].

Le macchine più grandi sono dunque «a proporzione» meno resistenti delle più piccole. Ognuna deve in primo luogo sostenere il proprio peso, perciò ad un aumento delle dimensioni corrisponde sempre una diminuzione della resistenza alle rotture. Poiché la causa del fenomeno è la tensione esercitata dalla gravità sulle parti interne della materia, per comprenderlo perfettamente occorrerà indagare «qual effetto sia quello che si opera nella frazzione di un legno o altro solido, le cui parti saldamente sono attaccate» [VIII, 54].

Per Sagredo bisogna prima di tutto «intendere qual sia quel glutine che sì tenacemente ritien congiunte le parti de i solidi, che pur finalmente sono dissolubili» [VIII, 56]. Così la discussione si sposta sul tema della natura del legame fra le particelle dei corpi solidi, che secondo Salviati dipende da due «capi» principali: da un lato «quella decantata repugnanza che ha la natura all'ammettere il vacuo», dall'altro «qualche glutine, visco o colla, che tenacemente colleghi le particole delle quali esso corpo è composto». Nonostante l'esperienza di due piastre perfettamente lisce posate l'una sull'altra che rimangono aderenti, se si solleva la piastra superiore, a causa dell'«orrore della natura nel dover ammettere, se ben per breve momento di tempo, lo spazio voto che tra di quelle rimarrebbe avanti che il concorso delle parti dell'aria circostante l'avesse occupato e ripieno» [VIII, 59], Sagredo contesta la conclusione di Salviati, con diverse obiezioni fisiche ed epistemologiche alla tesi dell'horror vacui. In generale, contro l'idea che il vuoto sia "contro natura", sostiene come «nissuna cosa sia contro a natura, salvo che l'impossibile, il quale poi non è mai» [VIII, 60].

Salviati ammette la validità delle critiche rivoltegli, ma ipotizza che la «repugnanza al vacuo», benché inesistente a livello macroscopico, possa essere «cagione della coerenza delle parti minori e sino delle minime ultime delle medesime materie» [VIII, 66]. Perciò la capacità coesiva esercitata da un piccolissimo interstizio vuoto posto tra le «minime particole» della materia verrebbe potenziata dal numero di tali «minimi vacui»: ogni minimo vuoto potrebbe facilmente essere superato, ma «l'innumerabile moltitudine» di piccoli vuoti «innumerabilmente (per così dire) multiplica le resistenze» [VIII, 67]. Questa «innumerabile moltitudine» di vuoti interparticellari potrebbe anche essere infinita, e Salviati tenta di dimostrare geometricamente, con lo studio di due esagoni di diverse dimensioni, come «in una continua estensione finita non repugni il potersi ritrovar infiniti vacui» [VIII, 68-71].

Il discorso intorno alla struttura della materia sfocia in un'analisi geometrica delle proprietà del continuo, fino a parlare di «composizione del continuo di atomi assolutamente indivisibili» [VIII, 93], un "atomismo matematico", dove ciò «che si dice delle semplici linee, s'intenderà detto delle superficie e de' corpi solidi, considerandogli composti di infiniti atomi non quanti» [VIII, 72]. La struttura della materia così come pensata da Galileo pone non pochi problemi di interpretazione, forse proprio per una complicata intercambiabilità fra continuità matematica e continuità fisica, e persino il solitamente acritico Vincenzo Viviani esprimeva dubbi circa la soluzione del maestro.

Parlare di struttura della materia offre il destro a una serie di digressioni. Così, Sagredo, Salviati e Simplicio tentano di operare sull'infinito, focalizzando l'attenzione sui paradossi che nascono nel confrontare insiemi infiniti, come il paradosso delle ruote [VIII 68-71], quello della scodella [VIII, 74] e quello dei quadrati [VIII, 78], fino ad affermare per bocca di Salviati che gli «attributi di maggioranza, minorità ed egualità non convenghino agli infiniti, de i quali non si può dire uno esser maggiore o minore o eguale all'altro» [VIII, 78]: una rinuncia, (o quanto meno una sospensione del giudizio) a trattare gli infiniti matematicamente.

Si passa allora agli specchi ustori e alla velocità della luce (giudicata da Salviati «se non istantanea, velocissima, e direi momentanea») [VIII, 86-89], per virare poi sulla condensazione e rarefazione [VIII, 93, 104-105]. Si tocca anche il moto dei gravi, per confutare le teorie dinamiche dell'aristotelismo, fino ad enunciare la tesi fondamentale dell'identica velocità di caduta nel vuoto per i corpi di qualsiasi natura [VIII, 105-118]. Salviati descrive prima alcune esperienze di «mobili» fatti scivolare «lungo un piano declive non molto elevato sopra l'orizontale», per rallentare la rapidità del moto e poter osservare più agevolmente il suo svolgersi. Poi illustra il comportamento di due pendoli costruiti con una palla di piombo ed una di sughero, legate a corde di eguale lunghezza al fine di evitare ogni attrito del mobile sul piano inclinato: «ciascheduna di tali vibrazioni si fa sotto tempi eguali, tanto quella di novanta gradi, quanto quella di cinquanta, di venti, di dieci e di quattro; sì che, in conseguenza, la velocità del mobile vien sempre languendo, poiché sotto tempi eguali va passando successivamente archi sempre minori e minori». Perciò «l'interna gravità» dei mobili non influisce minimamente sulle loro velocità, che variano unicamente in ragione degli attriti [VIII, 128-131].

Dalle vibrazioni dei pendoli Sagredo e Salviati passano alle vibrazioni sonore, la cui frequenza determina l'altezza del suono. L'ennesima digressione, che conclude la Prima giornata, segue il variare dell'altezza dei suoni prodotti da una corda oscillante, influenzato non solo dalla sua lunghezza, ma anche dal variare del peso che la tende e dal peso della corda stessa: per ottenere ad esempio una nota più alta di un'ottava, occorrerà dividere la corda a metà, oppure quadruplicare il peso che la tende [VIII, 143].

Seconda giornata

Nella Seconda giornata Salviati sviluppa il tema della resistenza dei solidi a rompersi, la quale, «ben che grandissima contro alla forza di chi per diritto gli tira, minore per lo più si osserva nel violentargli per traverso». Un'asse di acciao o di vetro, ad esempio, reggerà mille libbre appese per lungo, ma se conficcata in un muro, si spezzerà attaccandone solo cinquanta. Nel prendere in esame questo secondo tipo di resistenza, il principio seguìto è «quello che nelle mecaniche si dimostra tra le passioni del vette, che noi chiamiamo leva, cioè che nell'uso della leva la forza alla resistenza ha la proporzion contraria di quella che hanno le distanze tra 'l sostegno e le medesime forza e resistenza» [VIII, 151-152].

Viene perciò esaminata una variegata casistica di esempi di resistenze di materiali alla rottura [VIII, 152-189], giustificandone il comportamento in base alle combinazioni di diverse leve e alla comparazione dei rispettivi momenti della resistenza e della forza. Non tenendo conto dell'elasticità dei materiali, il metodo seguìto, direttamente derivato da Archimede, è la creazione di un modello geometrico che prescinda da ogni corporeità. Un'eventuale applicazione pratica comporterà l'adattamento del modello astratto alle imperfezioni della materia: «queste forze, resistenze, momenti, figure, etc., si posson considerar in astratto e separate dalla materia, ed anco in concreto e congiunte con la materia; ed in questo modo quelli accidenti che converranno alle figure considerate come immateriali, riceveranno alcune modificazioni mentre li aggiugneremo la materia, ed in consequenza la gravità» [VIII, 154].

Il ricorso all'astrazione geometrica relativamente alla resistenza dei materiali, è un tassello ulteriore del progetto di un'integrale matematizzazione della fisica. In polemica con l'aristotelismo delle scuole Galileo, per bocca di Sagredo, attribuisce alla geometria quelle proprietà di incrementare la conoscenza della natura, che invece nega alla logica:

Sagr. Che diremo, Sig. Simplicio? non convien egli confessare, la virtù della geometria esser il più potente strumento d'ogni altro per acuir l'ingegno e disporlo al perfettamente discorrere e specolare? e che con gran ragione voleva Platone i suoi scolari prima ben fondati nelle matematiche? Io benissimo avevo compreso la facultà della leva, e come crescendo o sciemando la sua lunghezza, cresceva o calava il momento della forza e della resistenza; con tutto ciò nella determinazione del presente problema m'ingannavo, e non di poco, ma d'infinito.
Simp. Veramente comincio a comprendere che la logica, benché strumento prestantissimo per regolare il nostro discorso, non arriva, quanto al destar la mente all'invenzione, all'acutezza della geometria.
Sagr. A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni già fatte e trovate procedano concludentemente; ma che ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti, ciò veramente non credo io
[VIII, 175].

Terza e quarta giornata

Nella Terza e nella Quarta giornata Salviati, Sagredo e Simplicio commentano una scrittura latina, il De motu locali, divisa in tre sezioni dedicate rispettivamente al moto uniforme, al moto naturalmente accelerato e alla caduta dei proiettili. Anche questa volta la matematica è il faro guida nell'analisi dei fenomeni del movimento. Vengono subito anticipate le proprietà scoperte da Galileo: il moto naturale dei gravi in discesa accelera costantemente secondo una determinata proporzione; la linea curva che i proiettili scagliati descrivono è una parabola [VIII, 190].

Nella sezione De motu aequabili [VIII, 191-196] la definizione di moto uniforme come il moto che percorre spazi uguali in tempi uguali, e i sei teoremi che seguono sembrano così scarso interesse nei tre amici, da non meritare neppure una chiosa. Ma nel De motu naturaliter accelerato e nella successiva, ampia, discussione [VIII, 197-267] si rende capillarmente ragione delle «passioni» (cioè delle proprietà) del movimento uniformemente accelerato, formulando la legge della proporzionalità degli spazi percorsi al quadrato dei tempi, ben fondata su prove empiriche, a partire dagli esperimenti compiuti con il piano inclinato [VIII, 212-213]. Per Salviati nella caduta libera l'accelerazione, qualunque sia la causa che la determina, è legata al tempo trascorso a partire dall'abbandono della quiete, e non allo spazio percorso (come nella fase giovanile della sua ricerca Galileo aveva creduto). I momenti della velocità di un moto accelerato, una volta lasciata la quiete, «crescono con quella semplicissima proporzione con la quale cresce la continuazion del tempo, che è quanto dire che in tempi eguali si facciano eguali additamenti di velocità» [VIII, 202]. L'analisi del movimento, come più volte specificato, riguarda unicamente i fenomeni, prescindendo totalmente dalle cause che possano averli determinati.

Nella Quarta giornata l'attenzione si sposta sul problema del moto dei proiettili [VIII, 268-313], la cui traiettoria risulta da molteplici dimostrazioni parabolica. Viene inoltre stabilito che la gettata massima dell'artiglieria si ha quando il pezzo è inclinato di 45° e si propone una dettagliatissima tavola balistica [VIII, 307].

Geometrizzare le entità fisiche per giungere a una fondata e rigorosa scienza del movimento è il fine primo Galileo, che ne proclama di nuovo l'assoluta necessità, facendo dire a Salviati:

De i quali accidenti di gravità, di velocità, ed anco di figura, come variabili in modi infiniti, non si può dar ferma scienza: e però, per poter scientificamente trattar cotal materia, bisogna astrar da essi, e ritrovate e dimostrate le conclusioni astratte da gl'impedimenti, servircene, nel praticarle, con quelle limitazioni che l'esperienza ci verrà insegnando. E non però piccolo sarà l'utile, perché le materie e lor figure saranno elette le men soggette a gl'impedimenti del mezo, quali sono le gravissime e le rotonde, e gli spazii e le velocità per lo più non saranno sì grandi, che le loro esorbitanze non possano con facil tara esser ridotte a segno; anzi pure ne i proietti praticabili da noi, che siano di materie gravi e di figura rotonda, ed anco di materie men gravi e di figura cilindrica, come frecce, lanciati con frombe o archi, insensibile sarà del tutto lo svario del lor moto dall'esatta figura parabolica [VIII, 276].

Condizionata dagli «impedimenti» della materia, l'esperienza fornisce dati disomogenei e contrastanti. Per elaborare una «ferma scienza» occorre perciò astrarsi dal mondo concreto che osserviamo e lavorare sulle forme geometriche. L'esperienza servirà poi ad adattare ai singoli casi pratici le leggi generali stabilite, anche perché «lo svario», cioè la differenza fra le regole e la loro applicazione è talmente minimo da poter esser corretto con una «facil tara».

A chiusura Salviati legge un'appendice con «alcune proposizioni attenenti al centro di gravità dei solidi» che il solito «Accademico», cioè Galileo, aveva studiato in giovane età, «parendogli che quello che in tal materia aveva scritto Federigo Comandino non mancasse di qualche imperfezzione» [VIII, 313]. Commandino fu in effetti uno dei primi a tentare di ripercorrere lo schema dimostrativo usato da Archimede nell'Equilibrio dei piani per trovare il centro di gravità di alcuni solidi. Seguendo questa tradizione Galileo si cimenta nell'individuazione dei centri di gravità dei conoidi parabolici e dei coni, e sostiene di non aver mai pubblicato i Theoremata circa centrum gravitatis solidorum [I, 187-208], stampati qui per la prima volta, per l'apparire nel 1604 di un'analoga opera di Luca Valerio. La loro composizione, però, è da collocarsi presumibilmente attorno al 1586.